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Great Resignation. Occhio alla Generazione Z

Great Resignation o Grandi Dimissioni. E’ un fenomeno che si sta sviluppando e che riguarda principalmente la Generazione Z. La pandemia ha ridisegnato la percezione del lavoro e rafforzato il concetto di benessere individuale. C’era una volta il posto fisso, la carriera, la retribuzione.

La generazione dei baby boomers ancora ricorda le nottate passate sui treni, affrontando viaggi lunghissimi, che portavano dritti alla possibilità di giocarsi le chances per la firma di un contratto. E quel contratto era tutto, era l’inizio della propria realizzazione come uomo, come donna. Non importava spesso il tipo di lavoro, non importava se le aspettative sarebbero poi coincise realmente con quanto ottenuto. Perché appunto la concretezza consisteva nella certezza, nella sicurezza di alcuni punti fermi.

Era il tempo in cui al capo si dava del Lei, il tempo in cui si viaggiava a testa bassa, in cui non ci si chiedeva troppo se l’azienda per cui si lavorava rispecchiasse davvero i principi che caratterizzavano la propria persona. Si prestava il proprio lavoro per realizzare se stessi. E, prima di scalare il desiderio dell’autorealizzazione, occorreva salire i gradini di una solida sicurezza sul lavoro e di un granitico stipendio. Durante i colloqui per posizioni ambite, alle domande, alle richieste, il “sì” era una risposta scontata, a costo di presentarsi per quello che davvero non si era. Provate ora a riavvolgere il nastro. Oggi non si viaggia più di notte, perché quei treni sono spesso sporchi e pericolosi, come allora. Ma non solo per quello. Non si viaggia più la notte perché in realtà non si è poi mica tanto disposti ad allontanarsi dalla propria casa e dai propri affetti. La realizzazione non si raggiunge più con la certezza di un lavoro, ma è il lavoro che può supportare e completare l’affermazione della propria realizzazione.

Per spiegarci meglio, si ricerca il lavoro nel quale la propria personalità è maggiormente in grado di esprimersi e, soprattutto, è valorizzata. E quindi, quando non si è nel posto giusto si fanno le valigie, anche senza alternative. Al capo non si dà più del Lei, si dà del Tu. Si dà del Tu all’azienda, e non si viaggia più a testa bassa. Ai colloqui, quando la risposta è no, è poi davvero no. Non si è più disposti a camuffare, a celare il proprio stile di vita, quello che si sa fare e quello che non si sa fare, quello che piace fare e quello che non piace fare, quello che si vuole fare e quello che non si vuole fare. Cambiano i paradigmi, e chissà, forse tutto questo non è poi così sbagliato. Anzi.

Fatto sta però che questo radicale stravolgimento, che poi altro non è che un ribaltamento generazionale, sta portando con sé un fenomeno al quale il mondo del lavoro, dei manager HR e delle aziende deve rivolgere la propria attenzione: il fenomeno delle Great Resignation. In italiano, le grandi dimissioni.

Secondo i dati pubblicati qualche tempo fa dall’Associazione Italiana Direzione del Personale (AIDP) le dimissioni volontarie riguardano il 60% delle aziende e gli addetti fra i 26 e i 35 anni. Il fenomeno è caratterizzato dal progressivo aumento delle dimissioni dei lavoratori dal proprio impiego. A scegliere di cambiare appunto sono proprio i giovani della Generazione Z, che affermano con sempre maggiore convinzione che la loro priorità è la felicità piuttosto che il lavoro. E mentre i responsabili delle risorse umane continuano ad associare il fenomeno più al desiderio dei giovani di cogliere migliori opportunità lavorative, che a dei veri ripensamenti del proprio stile di vita, la situazione inizia a sfuggire dalle mani.

La pandemia ha senza dubbio accelerato ed enfatizzato questo fenomeno. Lo smart working ha riscritto tante cose: a casa molti lavoratori hanno avuto tempo di pensare e di mettere a fuoco anche la propria condizione occupazionale. E da questa nuova analisi sono emerse molte negatività fino a quel tempo sopite: stili autocratici dei responsabili, sbilanciamenti vita privata – vita professionale, rigidità.

Gli stessi giovani si sono domandati se quello che facevano ogni giorno fosse in linea con la loro integrità personale e la loro voglia di benessere. La risposta è stata scontata: no.

Insomma la pandemia ha letteralmente cambiato ciò che i giovani si aspettano dai propri ruoli lavorativi.

E le aziende? Stanno provando a correre ai ripari, con programmi di welfare e wellbeing, e di generale retention. Ma non credo possa bastare, almeno nel lungo periodo. I manager dovranno saper maturare la capacità di intervenire in modo più sistemico alla base e rendere l’ambiente di lavoro il più possibile inclusivo, sostenibile e di supporto all’apprendimento e alla crescita individuale di tutte le risorse.

E questo atteggiamento non si risolverà certo in programmi, seppur lodevoli, di wellbeing

Luca Gianella
Luca Gianella
Esecutivo Nazionale FABI Giovani
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