Nella culla della civiltà occidentale, la musica fu dapprima legata a concezioni mistico-sacrali.
La vasta produzione di miti greci, che raccontano la nascita degli strumenti, è testimone del legame inscindibile tra la musica e il divino. D’altronde, lo stesso concetto di narrazione era inizialmente affidato alle figure degli aedi e successivamente dei rapsodi, entrambi cantori per definizione. Ciò vale soprattutto per le gesta degli eroi, accompagnate dal suono di una cetra, che hanno formato il nucleo della cultura classica. È già in tale contesto storico che la concezione di musica inizia a biforcare, allineandosi agli ideali di apollineo e dionisiaco. Da un lato, la musica come luce e ragione, dall’altro una pura esplosione sensoriale.
Pochi secoli fa, le comunità afroamericane la adoperarono come linguaggio di libertà, in contrapposizione all’opprimente regime di schiavitù, attraverso gli spiritual. Il ruolo del canto divenne ancora più incisivo nell’attuare la Ferrovia Sotterranea, una rete di percorsi segreti, volti ad aiutare tali comunità nella fuga verso gli Stati abolizionisti. Attraverso i testi delle canzoni era possibile fornire istruzioni dettagliate sulle modalità di partenza, sui controlli delle autorità e ogni altro dettaglio sensibile.
Il Novecento è il teatro della frammentazione. Tradizionalmente, la musica era ancora un campo unitario, diviso per destinazione e non per genere. Nonostante ciò, è ancora possibile evidenziare componenti preponderanti di apollineo e dionisiaco in fenomeni specifici.
Il punk, ad esempio, è una forma ancora più distruttiva degli impulsi dionisiaci classici. Più spesso, i generi hanno inglobato, combinato variamente entrambi gli elementi con risultati eclettici. Tutto ciò testimonia come la musica sia una delle misure della storia e chissà come il tempo la trasformerà ancora.