Secondo un recente studio della FABI il sistema bancario italiano produrrà nel 2023 circa 40 miliardi di euro di utile. Cifra che fino a qualche anno fa poteva sembrare assolutamente utopistica, oggi è assolutamente realistica anche per via di situazioni di mercato favorevoli al sistema.
Molti dei 40 miliardi andranno nelle tasche degli azionisti e qualcuno nelle casse dell’erario, nonostante la scelta dei principali gruppi bancari di destinare a riserva i proventi dai cosiddetti extraprofitti.
La Banca centrale europea ha fortemente criticato le scelte del governo italiano di tassare ulteriormente i guadagni delle banche, ipotizzando che la situazione avrebbe portato incertezza sul quadro fiscale oltre che difficoltà ad attrarre capitali nazionali ed esteri. Nel mentre continua la cauta politica adottata dalla Federal Reserve e replicata poi dalla BCE di mantenimento dei tassi di interesse, volto a calmierare l’inflazione, che è comunque prevista in calo per il 2024.
Accedere al credito è quindi oggi molto difficile, oltre che proibitivo, con conseguente collasso del mercato immobiliare. Insomma, cambiamenti epocali o forse corsi e ricorsi storici. Ritornerebbe parallelamente il rischio del credito deteriorato, che sembrava un male quasi estirpato negli ultimi anni. Il settore è passato infatti da circa 341 miliardi di sofferenze a poche decine dello scorso anno. A farne le spese, purtroppo, saranno prevalentemente le piccole banche che fanno della concessione del credito il proprio core business. Si potrebbe definire un terremoto economico- finanziario quello che ci sta colpendo, nel quale dobbiamo provare a districarci con maestria nonostante non dipenda esclusivamente da noi, perché le scelte della nostra vita oggi sono subordinate anche ad altri.
Il primo atto di civiltà nei confronti dei lavoratori dovrebbe essere il rinnovo di tutti i contratti collettivi nazionali di lavoro, con conseguente aumento della retribuzione in linea con l’inflazione subita. Infatti, secondo recenti studi gli stipendi italiani sono quelli cresciuti meno negli ultimi 30 anni, circa l’1%, rispetto alla media dei paesi OCSE, che hanno avuto incrementi del 32,5%. Anche per questo motivo negli ultimi mesi in molti si sono interrogati circa la possibilità di introdurre il salario minimo anche in Italia, in linea con molti paesi europei. Se guardiamo al settore del credito possiamo dire che il salario minimo esiste da ormai oltre 70 anni, grazie alla contrattazione collettiva nazionale. Salario minimo che lo scorso 23 novembre, ha visto un significativo ritocco verso l’alto, con un aumento di 435 euro medi mensili per i lavoratori bancari tutti. Un risultato inimmaginabile solo qualche mese fa, possibile grazie all’altissimo tasso di sindacalizzazione del settore (ricordiamo il più alto fra le categorie) e allo straordinario lavoro fatto dalla FABI e dal suo Segretario Generale, Lando Maria Sileoni, ringraziato pubblicamente anche da una nota ufficiale dell’ABI per il ruolo di sintesi e la lungimiranza avuta nella trattativa.
Finalmente si è ridato lustro ad una categoria martoriata negli anni, spesso confusa con i banchieri e figlia di stereotipi che facciamo fatica a cancellare. Un contratto che rimette al centro la persona, dall’alto valore sociale e normativo, che tutela per i prossimi anni una categoria che qualcuno ha provato a dividere a più riprese. Un contratto normalizzatore e nello stesso tempo prospettico che fornisce gli strumenti ai gruppi bancari e alle Organizzazioni sindacali aziendali per affrontare al meglio le sfide che il sistema nei prossimi anni ci metterà davanti.
Il 23 novembre è stata una tappa storica per la nostra categoria, è la storia di un’idea, un pensiero che prende forma con la firma dell’ipotesi di accordo. Storia che parte da lontano quando un gruppo di visionari nel 1949 firmarono da soli il primo contratto collettivo nazionale di settore, storia destinata a durare nel tempo. È la storia di tante persone che hanno percorso con noi questo lungo cammino ai quali va oggi il nostro pensiero perché hanno contribuito alla costruzione della nostra categoria, senza mai arrendersi. Anche perché come sosteneva Ezra Pound “Quello che conta non è tanto l’idea, ma la capacità di crederci”.