Secondo un recente studio un manager in Italia guadagna mediamente 3.300 euro nette al mese; compenso che ovviamente varia in funzione dell’esperienza, dell’azienda e dei risultati conseguiti. Differenza sostanziale esiste poi fra le società non quotate e quelle presenti sul listino del Ftse Mib, i cui dirigenti guadagnano quasi sempre stipendi a sei zeri. Insomma, negli ultimi anni abbiamo assistito alla spasmodica rincorsa alla remunerazione dei capitali, ad ogni costo.
Essere competitivi sui mercati globali per essere appetibili agli investitori provenienti da tutto il mondo. L’altra faccia della globalizzazione. I numeri cambiano ancora se guardiamo con attenzione il settore del credito, infatti, secondo i dati dell’Autorità bancaria europea, nel 2021 quasi duemila banchieri hanno guadagnato uno stipendio annuale di oltre un milione di euro, cifra di molto superiore rispetto ai colleghi di altre categorie e le distanze negli ultimi anni si sono ulteriormente accentuate.
Parliamo di uno stipendio che è mediamente 54 volte superiore a quello di un bancario.
Esiste veramente tutta questa differenza? Tutto questo va nella direzione che l’essere umano sta percorrendo ormai da decenni, ridistribuire sempre più ricchezza in mano a pochi, creando nuove condizioni sociali per persone che fanno ormai fatica ad arrivare alla fine del mese, pur possedendo uno stipendio dignitoso, etichettati spesso come i “nuovi poveri”. Upside down, il mondo capovolto. A volte sembra che banchieri e bancari vivano su pianeti diversi e non solo per l’enorme differenza salariale, ma anche per la percezione che entrambi possiedono della realtà. Può capitare che il soffitto può essere il pavimento di un altro uomo, e viceversa.
Alle volte pare che tutto vada al contrario e che le leggi dell’economia siano stravolte. Sembra che il lavoro non produca ricchezza e tutto quello che pensavamo ora viene messo in discussione. La FABI, insieme con le altre organizzazioni sindacali, si è interrogata più volte sul tema dell’equità retributiva e sul tema dei supercompensi del top management, che dovrebbero in qualche maniera essere proporzionati rispetto al salario del bancario medio.
La giusta ripartizione della ricchezza è il principio cardine della democrazia economica, ancor di più in un momento in cui il settore produce 25 miliardi di euro all’anno anche per condizioni di mercato favorevoli, che esulano dalla bravura dell’amministratore delegato di turno. Il tema per noi non è più rinviabile a data da destinarsi e servono segni tangibili e immediati, partendo dal rinnovo del Ccnl, che è il primo vero garante di equità sociale ed economica. Il rischio più grande in questo momento potrebbe essere quello di lasciarsi trascinare dal peso della propria solitudine o quello di sentirsi impotenti, proprio come nel film Upside down in cui Adam dice “Sono stato ingenuo a pensare di poter cambiare il mondo. Quelli lassù vincono sempre, quaggiù perdono sempre…”.
Non abbiamo l’ambizione di cambiare il mondo, ma vorremmo un settore del credito in cui la parola “giustizia” non rappresenti solo uno slogan pubblicitario. Continuando a camminare in un mondo, che alle volte, appare capovolto, il pericolo più grande che avvertiamo è quello di abituarci ad una condizione di disagio perenne e immutabile. Ma spesso la storia è ciclica, come sosteneva Machiavelli, e la speranza che si possa tornare a valorizzare concretamente le persone è ancora viva nelle nostre coscienze e – perché no? – anche la speranza di ritornare con i “piedi per terra”.